giovedì 19 settembre 2013

Kurosawa e Miike, la via del Giappone in una katana grondante di sangue

Una katana, o magari anche solo una sua ombra, potrebbe esserci questo al centro di quel vuoto attorno a cui Roland Barthes vedeva ruotare tutti gli strati che compongono il Giappone moderno. Strati fatti di simboli e segni che si sono accumulati negli anni e che, secondo Tiziano Terzani, hanno disorientato non poco il popolo del sol levante mandandolo in crisi d'identità. Eppure quando registi e scrittori nipponici si chiedono cosa voglia dire essere giapponese, spesso è proprio a quell'immaginario fatto di guerrieri e daimyo che vanno ad attingere i loro tratti identitari. In maniera nostalgica e nazionalista come lo scrittore Yukio Mishima, arrivato a compiere il seppuku (suicidio) tradizionale per protestare contro la ''deriva'' della società giapponese, o in maniera critica come il regista Akira Kurosawa. Proprio di recente un remake di una pellicola di Eiichi Kudo del 1963, intitolata Tredici assassini e diretta da Takashi Miike, sembra dialogare a circa mezzo secolo di distanza con il capolavoro di Kurosawa ''I sette samurai'', rendendo ancora più complessa quella figura eroica e paradossale votata al bushido. In ambedue le pellicole lo stato dei samurai riflette la condizione che il Giappone si trova a vivere.
Ronin (samurai senza padrone) affamati e orgogliosi si ritrovano, nel film di Kurosawa, a vagare per il paese in cerca di una gloria che sembra impossibile solo da intravedere. Ci troviamo in epoca sengoku (1478 – 1605), nel quale la terra del sol levante si ritrova devastata da tanti conflitti intestini.
Più ricchi, ma confusi e distratti dai piaceri mondani, sono invece i guerrieri di Miike, che fa muovere i suoi personaggi nel periodo Edo (1605 – 1868). A quel tempo, con una diarchia tenuta in piedi dallo shogun e l'imperatore, il paese era riuscito a raggiungere una certa stabilità, anche se flebile e ottenuta tramite innumerevoli stragi. Nonostante la pace apparente il Giappone del XVII secolo appare inoltre totalmente chiuso in se stesso, basti pensare alla carneficina di cristiani perpetrata a Nagasaki (dove era presente l'unico porto accessibile agli occidentali).
Il filo conduttore tra le due pellicole, oltre che nella crisi esistenziale della casta guerriera, sta nell'iniziativa di un samurai di raggruppare attorno a sé un gruppo di maestri di spada per compiere una missione. Forse l'ultima, quella che gli avrebbe permesso di trovare una morte dignitosa o un nuovo senso alla loro vita.
Anche perché, per la prima volta, quello per cui si ritroveranno a combattere non sarà più un feudatario capriccioso ma un alto ideale di giustizia.
Privati di un padrone a cui votarsi, i sette samurai di Kurosawa trovano una nuova ''via'' mettendosi al servizio di un villaggio di contadini minacciato da una banda di briganti. Il loro sarà quasi un tentativo di democratizzazione del paese, costruita lungo le orme della tradizione (e non inculcata con un olocausto nucleare, come è accaduto nel 1945). D'altronde una casta guerriera che si sottomette al popolo, invece che a un sovrano, non può essere vista come una forma di democrazia?
Shinzaemon Shimada, il protagonista del film di Miike, invece raccoglie tredici guerrieri per uccidere il folle e sanguinario Naritsugu, fratello minore dello Shogun e prossimo suo consigliere. Da samurai i membri del gruppo si trasformeranno quindi in assassini, tentando una redenzione in extremis di una vita passata a compiere stragi per conto di questo o quell'altro despota.
Amara appare la via del guerriero, specialmente quando si vede Naritsugu prendere a calci la testa mozzata di un samurai che era appena morto per proteggerlo.
Triste non poteva che essere anche la conclusione dei due film. Quasi tutti i guerrieri infatti, pur avendo raggiunto l'obiettivo della missione, finiscono per perdere la vita, mentre ai sopravvissuti non resta neanche la soddisfazione di una vittoria netta e di un cambiamento reale delle loro vite. ''Anche stavolta siamo stati noi i vinti – dice il protagonista Kambei Shimada, alla fine de I sette samurai - I vincitori sono i contadini''.
''Shinrokuro, essere un samurai è davvero una gran bella seccatura. Fai ciò che vuoi della tua vita'', dice invece Shinzaemon a suo nipote che si era unito al gruppo per redimersi da una vita sperperata con le prostitute e il gioco d'azzardo. Il giovane poi abbandonerà la via del guerriero per darsi a quella del brigantaggio.
L'amarezza impressa nei due finali funge anche da preludio a quello che presto sarebbe accaduto. La fine dei samurai, tramite editto imperiale, la follia di Pearl Harbor e il bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki.

giovedì 29 agosto 2013

Da Charlie a Cartman, passando per Bart


Peanuts vuol dire personcine o noccioline, ma dal 2 ottobre del 1950 tale termine viene associato anche alla mitica striscia di fumetti creata da Charles Monroe Schulz. Evergreen nei numerosi gadgets, che ancora oggi si continuano a vendere in tutto il mondo, le avventure di Snoopy e soci si sono fermate però il 13 febbraio del 2000: data di pubblicazione dell'ultima striscia recante la lettera di addio con cui Schulz si congedò dai suoi lettori. Nei cinquant'anni precedenti il disegnatore americano ogni giorno dedicò alcune ore alla creazione di quelle vignette, che vennero pubblicate su oltre 2.600 giornali in 75 paesi diversi. Non smise neanche quando la sua mano iniziò a tremolare. D'altronde era proprio la ripetitività la forza e la chiave di comprensione delle vicende di quella piccola comunità di bambini, residenti in un'anonima cittadina degli States. Solo attraverso la ridondanza della stessa azione si poteva comprendere il carattere eroico, e nello stesso tempo inetto, del piccolo Charlie Brown che ogni giorno usciva di casa cercando, senza mai riuscirci, di calciare un pallone o di far volare un aquilone.
Solo attraverso la lettura quotidiana si poteva intravedere, nello sguardo attonito con cui il bambino osservava Peperita Patty cimentarsi nelle più disparate imprese atletiche, il senso profondo di quelle piccole frustrazioni che tutti noi siamo costretti a subire ogni giorno. Sullo sfondo c'era la provincia americana, fatta di casette tutte uguali circondate da asettiche staccionate bianche. Era un'immagine degli Usa nuova quella che Schulz portava nel mondo, che stava ad indicare il passaggio dal mito della frontiera a quello del rifugio. L'America degli anni 50, nonostante le accuse di imperialismo, sembrava intenzionata infatti non tanto ad esportare il proprio stile di vita, quanto a chiudersi a riccio cercando di difendersi dalla minaccia esterna del comunismo.

Ma non solo di America parlano i Peanuts. Le speculazioni filosofiche di Linus, le paranoie di Lucy, l'ingenuità di Sally e le velleità artistiche di Schroeder, descrivono un po' anche tutti noi. ''Questi bambini ci toccano da vicino - dice il più illustre traduttore del fumetto, Umberto Eco - perché in un certo senso sono dei mostri: sono le mostruose riduzioni infantili di tutte le nevrosi di un moderno cittadino della civiltà industriale''.
L'interpretazione del semiologo però viene ribaltata dal professore di letteratura angloamericana dell'Università di Macerata, Valerio De Angelis. Secondo il quale ''i Peanuts stanno proprio a rappresentare l'infantilizzazione in cui la classe media è stata relegata da una sorta di 'pax consumista'''.
In qualsiasi modo la si voglia mettere però quello che è sicuro è che sia per il loro autore che per i lettori la fruizione quotidiana dei Peanuts ha avuto certamente una valenza terapeutica. I personaggi del fumetto, come spiega il saggista Luca Raffaelli, ''in fondo sono dentro di noi. Rappresentano i tanti bambini interiori che albergano nella nostra anima e che si moltiplicano con l'andare avanti dell'età''.
Schulz non ebbe eredi, come dettato dalle sue ultime volontà le avventure di Snoopy finirono con lui e Charlie Brown non riuscì mai a vincere una partita di baseball. Ma il testimone è stato repentinamente raccolto da tanti prodotti culturali, due dei quali spiccano per le tante somiglianze che ancora conservano con la poetica del loro padre ispiratore.
I primi, andando in ordine cronologico, sono sicuramente I Simpson: la serie creata dal fumettista americano Matt Groening, verso la fine degli anni 80. Periodo nel quale la popolarità dei Peanuts cominciava lentamente a scemare. Anche la famiglia più celebre del fumetto made in USA vive in una cittadina della provincia americana. La quale resta però di difficile individuazione, in quanto ogni stato degli Usa ha una Springfield. Come Charlie Brown e company anche I Simpson inoltre fanno parte della middle class statunitense, ma è nelle differenze tra i due prodotti che si riconoscono le principali somiglianze. Nella serie di Groening, al contrario del fumetto di Schulz, per esempio appaiono gli adulti. Questi ultimi però, e soprattutto il protagonista Homer, hanno chiare caratteristiche infantili. Le riflessioni di De Angelis qui divengono esplicite. I membri della classe media americana appaiono come dei grossi bambinoni conformisti, consumisti e, a causa delle loro spinte narcisistiche, incapaci di creare una comunità nel senso civile del termine.
Non ci sono dubbi invece riguardo la somiglianza che i Peanuts hanno con un altro popolarissimo gruppo di bimbi, quello di South Park: la serie televisiva statunitense creata da Matt Stone e Trey Parker.
Qui gli adulti, pur non avendo caratteristiche infantili, hanno un ruolo sicuramente secondario rispetto ai bambini.
South Park potrebbe quasi essere visto come l'esasperazione delle tematiche messe in atto da Schulz, che si incistiscono nel tessuto sociale degenerando in una violenza atroce e grottesca. La cosa sorprendente però è che lo scenario di provincia in cui si muovono Kenny e Cartman è praticamente identico a quello che faceva da sfondo alle avventure di Charlie Brown e Peperita Patty. South Park è nato nel 1997, a quasi mezzo secolo di distanza dalle prime vignette dei Peanuts, eppure la provincia americana continua a rimanere identica: staccionate bianche e campi da baseball inclusi.

Un ultimo tratto che accomuna i tre titoli sta sicuramente nella denuncia dell'ipocrisia insita nella borghesia americana. Ogni episodio delle serie in questione infatti può essere visto come il tentativo di squarciare il Velo di Maya del conformismo.
Quelle convenzioni sociali che nascondono i veri sentimenti della popolazione con una farsa buonista e puritana. Mentre nei Peanuts dietro i formalismi si cela un'America ripiegata su se stessa, composta da tante solitudini recluse dietro il televisore e oppresse da stereotipi troppo difficili da raggiungere, in South Park oltre la finzione troviamo invece qualcosa di molto simile all' ''Orrore'' enunciato da Kurz in Apocalypse now. I bambini si trovano ad essere talmente disorientati dalle contraddizioni valoriali del mondo degli adulti da rasentare la follia omicida. Più rassicuranti appaiono le dinamiche dei Simpson, che si muovono in una direzione completamente opposta.
All'inizio la comunità di Springfield viene criticata aspramente. Basti vedere la famiglia protagonista della serie, stretta tra le frustrazioni di Lisa e Marge, la stupida cialtronaggine di Homer e i problemi comportamentali del monello Bart. Alla fine però il nuovo continente appare più accogliente di quanto ci si aspettasse. Pur nei loro difetti la famiglia Simpson dimostra di saper essere calda e affettuosa, l'amore che i suoi componenti nutrono gli uni per gli altri supera ogni avversità. Gli States in conclusione, nonostante i tanti difetti, continuano a essere descritti come il posto migliore del mondo (centrale nucleare di Montgomeri Burns a parte).

martedì 20 agosto 2013

Dalla roccia alla carta, il karma dello scimmiotto consapevole del vuoto

''Un primate dotato di una forza straordinaria che a cavallo di una nuvola d'oro, e armato di un bastone che si allunga a comando, accompagna un monaco e un porcellino in un lungo viaggio pieno di pericoli''. Dite questa frase a un qualsiasi occidentale non troppo anziano e il vostro interlocutore non avrà dubbi ad attribuire la descrizione che gli avete fornito a Son Goku: il protagonista del manga, firmato da Akira Toriyama nel 1984, Dragon Ball. Non potrebbe essere altrimenti dopo le 152 milioni di copie vendute solo in Giappone e la capillare, nonché globale, diffusione che il fumetto ha avuto anche grazie a una serie animata, vari videogiochi e merchandising di ogni genere. Ai più appassionati però non saranno sfuggite anche le tante apparizioni che un simile scimmiotto fa in altri titoli nipponici. Basti pensare al protagonista di Goku no daboiken (Osamu Tezuka, 1967) o alla scimmia che si trasforma in un bastone allungabile, evocata da un personaggio di Naruto (Masashi Kishimoto, 1999). Allora, chi ha preso ispirazione da chi? Se il vostro interlocutore avrà invece gli occhi a mandorla e un passaporto asiatico, non esiterà a rispondere anche a quest'altro quesito. Dopotutto, che sia giapponese o cinese, la storia che ha dato il via a tutto probabilmente l'avrà studiata a scuola. Si tratta del romanzo Saiyuki (Viaggio in occidente). Una raccolta, pubblicata intorno al 1590, di una serie di leggende nate in Cina durante la dinastia Tang (618-907) e attribuita, più per tradizione che per attendibilità, a un funzionario di basso rango della corte dei Ming di nome Wu Cheng'en.
Generato dalle rocce di una montagna, lo scimmiotto appare all'inizio dell'opera con un carattere fanciullesco, sempre in bilico tra solidarietà e crimine. I suoi capricci lo porteranno ad abbandonare una vita semplice per divenire il re delle scimmie prima e lo sfidante del Cielo, nonché aspirante dio, poi. Pur avendo acquisito l'immortalità e poteri magici strabilianti da un saggio taoista (che gli darà il nome di ''Consapevole del vuoto'') però, dopo aver messo a ferro e fuoco il Cielo e la Terra, il primate verrà imprigionato nella Montagna dei cinque elementi da Buddha, accorso in fretta e furia dal cielo indiano per dar man forte alle divinità cinesi. Dopo 500 anni la bodhisattva Guanyin darà tuttavia all'animale l'occasione di riscattarsi. Dovrà accompagnare il monaco cinese Hsuan Tsang verso l'India, per recuperare i testi sacri buddhisti del Tripitaka e portarli nel celeste impero. Da quel momento ha inizio il viaggio dello scimmiotto verso l'occidente, che ancora continua attraverso le sue tante reincarnazioni. Grazie alle quali, dalle pergamene antiche è riuscito ad arrivare sulle tavole di molti mangaka e del nostro Milo Manara (Lo scimmiotto, Milo Manara, 1977). Il perché di un tale feeling con la nona arte lo si capisce dalle prime pagine del romanzo.
Soprattutto quando il protagonista, per uccidere un demone, si strappa un ciuffo di peli e soffiandoci sopra li trasforma in tante scimmiette che tramortiscono il mostro prima del colpo di grazia. Viene subito voglia di vederla almeno raffigurata quella scena, come tante altre che seguono. E mai tali combattimenti sono stati resi così bene come in Dragon Ball.
Ma, mentre nell'opera originale i personaggi cercano l'illuminazione e l'abolizione del desiderio (prima causa di sofferenza, secondo la dottrina buddhista), nel manga di Toriyama i compagni e i nemici di Goku non fanno altro che inseguire i loro desideri, che variano da ''trovare un fidanzato'' a ''conquistare il mondo''. Per far ciò cercano sette sfere, che una volta riunite permettono di esaudire qualsiasi richiesta. Il tutto si risolverà con un niente di fatto, ma i personaggi usciranno da quell'esperienza più maturi e felici, scoprendo che il viaggio valeva più della meta. Fin troppo positivo appare Goku, totalmente privo di bramosia e per nulla ambizioso. Cosa che ha fatto storcere il naso ai fan dello scimmiotto libertario e violento di Cheng'en. La carica distruttiva del primate è però tornata alla ribalta con un altro titolo più di nicchia, ma ugualmente destinato a divenire un importante tassello dell'interminabile saga. Sto parlando di Saiyukiden di Katsuya Terada (realizzato nel 1998, ma da poco pubblicato in Italia dalla J-Pop). In questa nuova reincarnazione cartacea Goku, dopo essere stato sconfitto in cielo, inizia il suo viaggio verso l'occidente per scovare e uccidere Buddha.
Scontrandosi contro i seguaci di Sakyamuni non fa altro che provare orrore per i tanti fedeli sottomessi all'Illuminato. Presto il pellegrinaggio appare però paradossale, in quanto ci si accorge che Buddha è in ogni cosa e soprattutto in ogni persona. Compare il più delle volte in forma fetale, quasi a rappresentare l'organo della buddità che dona a ognuno la capacità di raggiungere l'illuminazione. Anche uccidere il Buddha può essere visto però come un passo verso il nirvana, perché rappresenta la totale libertà da ogni maestro.
Meno fortuna ha avuto il monaco Hsuang Tsang, appena accennato o del tutto tralasciato nelle diverse serie in cui appare Goku. Anche se un religioso erudito di nome Xuanzang, che dalla Cina arrivò in India per studiare il Tripitaka, pare che sia realmente esistito. Ancora oggi ci si chiede come abbia fatto, nel 630, a evitare banditi e malviventi per tutto il percorso. Forse qualche angelo custode avrà vegliato su di lui.